AVIDITÀ PUNITA
Tanto tempo fa, un cacciatore colpì un elefante con una freccia avvelenata; quando si accorse di averlo colpito, seguì la freccia e uccise l’elefante.
Per una cattiva stella, tuttavia, arrivarono in quella contrada cinquecento ladroni che avevano saccheggiato un villaggio di montagna e scorsero l’elefante.
Poiché era già tempo di carestia, essi dissero: “Abbiamo trovato una gran quantità di carne. Duecentocinquanta di noi, faranno a pezzi l’elefante e lo arrostiranno, gli altri duecentocinquanta, invece, procureranno l’acqua”.
Quelli che tagliavano e cuocevano l’elefante si trovarono a pensare: “Visto che ci siamo sobbarcati questo lavoro e abbiamo messo insieme tanto bottino, perché dovremmo cederne parte agli altri! Mangiamo carne a volontà e avveleniamone gli avanzi; quelli la mangeranno e ne moriranno, così il bottino sarà tutto nostro”.
Dopo averne mangiata a sazietà, ne avvelenarono così i resti. Quelli che erano andati a prendere l’acqua, del resto, avevano avvelenato l’acqua che non avevano bevuto. Quando furono di nuovo insieme, quelli che avevano mangiato la carne bevvero l’acqua e quelli che avevano bevuto l’acqua mangiarono la carne, morirono tutti.
Giunse allora in quel luogo uno sciacallo, che scorse tutti quei cadaveri. Con una gioia che nasceva dalla sua cupidigia pensò: “Mi trovo davanti a un bottino enorme; procederò per gradi”.
Afferrò l’arco con le fauci e si mise a rosicchiare i nodi della corda. La corda però si spezzò e un’estremità dell’arco lo colpì sul palato, uccidendolo.
Mukhara il saggio, pronunziò questa sentenza: “Si debbono raccogliere provviste, ma non superiori ai propri bisogni, guardate come lo sciacallo, accecato dall’avidità per il suo bottino, è stato ucciso dall’arco”.